IL TEMPO SECONDO GRAVNER

Cosa dobbiamo fare per comprendere il reale contributo dell’uomo su questa terra? Camminiamo spesso inconsapevoli delle conseguenze delle nostre azioni, con la superbia di chi crede di essere la specie dominante. Ci prendiamo libertà in nome dell’innovazione, spesso a discapito del mondo che ci ospita.
Molti di noi vivono nella totale inconsapevolezza; altri, come la famiglia Gravner, sono ben coscienti del loro potere e, per quanto possibile, scelgono di camminare su questa terra con umiltà, sapendo di esserne solo ospiti di passaggio. Con il loro lavoro contribuiscono a creare un ecosistema che aspira all’eternità: un’utopia resa reale dalla capacità di Josko Gravner di farci riflettere.
L’azienda Gravner prende vita nel 1901, quando il nonno di Josko, Josef, acquista due ettari di terreno nella località di Lenzuolo Bianco, piccola frazione di Oslavia, in provincia di Gorizia, all’epoca parte del regno austro-ungarico. Terra scenario di uno dei fronti più aspri della Grande Guerra. Allo scoppio del conflitto, quando Lenzuolo Bianco si tinge di rosso, la famiglia Gravner è costretta a scappare in Piemonte, a Ivrea, dove continua a fare quello che conosce meglio: lavorare la terra. Tornerà a Oslavia alla fine delle ostilità e aprirà Osteria da Gravner, principale fonte di sostentamento per la famiglia. L’attività verrà chiusa quando il nonno di Josko si rifiuterà di iscriversi al partito fascista e si tornerà così a contare sulla coltivazione per poter sopravvivere, piantando di tutto, inclusa la vite. La produzione di vino diventa una delle attività principali solo dal 1973 in poi, su impulso di Josko, quando i Gravner iniziano a imbottigliare. È questo per Josko un periodo di grandi sperimentazioni, accompagnato da suo padre, fino al 1976, anno in cui rimarrà da solo nella gestione dei vigneti e di tanto altro.
Josef Gravner trasmette al nipote Josko un principio fondamentale: “per essere davvero contadini, con la C maiuscola, bisogna badare alla qualità più che alla quantità”. La ricerca della qualità ha sempre accompagnato la storia della famiglia Gravner; anche il padre di Josko, pur non utilizzando le stesse tecniche del figlio, credeva fermamente nella possibilità di coltivare uve di eccellenza, producendo quella quantità necessaria per curare al meglio le sue viti. Un pensiero controcorrente in un’epoca in cui il “tanto” era considerato sinonimo di successo. E come biasimarli. Gli anni dello scorso secolo hanno stampato nell’animo, di chi si trova al confine, la realtà della fame: infatti, quando Josko decide di diradare, i vecchietti soffrono e piangono, perché non è solo uva, ma memoria, fame e guerra; buttarla via è un tradimento. Ma Gravner ha capito da sempre che fare vino significa scegliere, ed ogni scelta ha un prezzo. Non si è lasciato influenzare, ha irrigidito il cuore prendendo decisioni dure, con l’obiettivo di migliorare la qualità dell’uva.
Quando, negli anni ‘80, Josko entra in azienda, non ha paura di sperimentare: prova tutto e cerca di ottenere il meglio da una terra difficile, fredda e selettiva, che lascia spazio solo ai più forti. La natura stessa, qui, vuole fermare l’eccesso, ponendo limiti all’opera dell’uomo. L’intero Friuli scopre una nuova identità, riconosciuta per i suoi vini bianchi. Josko ha contribuito, insieme ad altri produttori, alla modernizzazione delle tecniche di produzione, che hanno consentito di produrre vini da vitigni internazionali, portati da Napoleone, al confine. Un’identità successivamente radicalmente sconvolta, che non paralizza però Josko, immune dalla paura di innovarsi, tanto da produrre un vino in totale connessione con la sua terra. Non contento, cerca ispirazione altrove. Fondamentale il suo viaggio prima in Borgogna, da dove rientrerà con le barrique francesi, poi in California nel 1987, dove ha imparato non ciò che deve fare quanto piuttosto cosa non fare.
La ricerca della sua innovazione lo spingerà poi a riscoprire il nuovo nell’antico. Fedele dunque al suo spirito, nel 1985 nasce l’attuale azienda, che conta oggi ben tre generazioni. Josko è supportato da sua figlia Mateja, che è tornata a Oslavia nel 2014 ed è impegnata nella gestione commerciale della cantina e nelle pubbliche relazioni. A dare una mano al nonno in vigna c’è Gregor Viola, figlio di Mateja. Da allora l’azienda è cresciuta fino a contare 21/22 ettari vitati suddivisi in tre vigneti, attraverso i quali si entra nel mondo di Gravner.
La prima tappa è Dedno, vigneto situato in territorio sloveno, al confine con Piumiza. Vitato dal 2009, è stato ampliato con una nuova porzione acquisita nel 2017. Seguiamo la nascita di un nuovo vigneto, partendo dalla preparazione del terreno. Come gli uccelli che tornano ad Oslavia e scelgono di trasferirsi nei nidi sparsi per i vigneti, l’uomo seleziona il terreno, lo cura per garantire un’ospitalità sicura, a tutti coloro che ci vivono. Per far ciò, prima si pianta una vite americana che fa radice, poi la si innesta con varietà europee, consentendo di preservare il materiale genetico autoctono della zona, resistente da oltre 150 anni. Un processo complesso da attuare specialmente in zone fredde come quelle di Gorizia: si hanno, infatti, solo due mesi miti affinché la pianta possa stabilizzarsi. La struttura del vigneto si dirama lungo il corso naturale del fiume. Le viti si adagiano su terrazzamenti irregolari seguendo l’andamento del terreno. Le terrazze sono costruite dove il terreno si ferma, per evitare frane. La terra, trasferita dal basso verso l’alto, è composta da ponca – complesso roccioso formatosi migliaia di anni fa – e scisto, terreno friabile, che si sgretola facilmente, che ha bisogno di cura costante e infinita, ma è perfetto per la Ribolla. L’approccio seguito prevede di osservare senza deviare il corso naturale dell’acqua, convogliando la natura, non ostacolandola, ma lavorando in armonia. In ogni modo, prima di avviare la produzione, le terrazze saranno lasciate a riposo e consolidate attraverso due anni di inerbimento.
La vegetazione rafforza la struttura delle terrazze, prevenendo cedimenti e garantendo sicurezza per chi vi lavora. La cura degli altri emerge dalla prevenzione di ogni possibile incidente. Si lavora con la vite, la quale va rispettata e tutelata. Gravner si cura del tutto, crea un cerchio reale che permette di trovare il giusto nido per crescere. Per questo, i tempi della messa a dimora sono lunghi: l’obiettivo è far durare un vigneto 40/60 anni, dando valore al lavoro. Senza tale lungimiranza, si rischia di ricadere in una trincea, con gli strascichi di una storia di sangue che ancora pesa. Il vigneto di Dedno si trova interamente in Slovenia. Avere terreni anche oltreconfine fa sì che all’azienda Gravner le persone lavorino su due territori con diversa sovranità. Questo status crea confusione a livello burocratico e non consente di sfruttare appieno i vantaggi delle denominazioni. Con la messa a dimora del nuovo appezzamento, la distribuzione dei vigneti tra i due confini, italiano e sloveno, cambia: si passa da 35% in Slovenia e 65% in Italia a un 53% in Italia. È paradossale come colui che non perde tempo per decidere se una cosa è giusta, e per il quale non vi sono ragioni che ne impediscano l’attuazione, trovi un ritmo diverso rispettando gli spazi che la natura gli concede.

Testimonianza della sua indole sicura è il vigneto Hum, definito da Mateja “il vigneto sbagliato”. Il nome fa riferimento al paese dove si trova l’ettaro di terreno che ospita la casa della nonna, oggi abitata da Gregor. Qui sono ancora presenti varietà internazionali come Merlot e Cabernet Sauvignon, presto espiantate per fare spazio alla Ribolla e ad albicocchi e ciliegi bianchi, riponendo fiducia in un sistema circolare. Hum rappresenta la testimonianza della Rivoluzione Gravner. Guidata dalla ricerca del gusto perfetto della Ribolla, assaggiata da bambino, il primo passo della sperimentazione parte proprio dal vigneto storico. Dal 1996 la forma del vigneto cambia, si opta per allevare la vite ad alberello. Decisione radicale, nata da una proposta di Marco Simonit, esperto di viticoltura e dell’arte della potatura, che suggerisce a Josko una potatura a spalliera, con piante ad alberello in fila. Josko, riconoscendo la validità dell’intuizione di Simonit, non ci pensa troppo ad accettare la sua idea. Serve carattere per ascoltarlo, ancora di più per mettere in pratica le idee di Marco, ma di certo a Gravner non manca carattere. L’obiettivo del nuovo sistema di allevamento è quello di conservare più legno vecchio possibile, evitando eccessi di vegetazione. La vite, come ci racconta Mateja, è “una creatura che produce senza veder crescere mai i suoi figli”, essa conserva la sua memoria attraverso il legno. Le piante, difatti, si sviluppano ma non produrranno mai per sé stesse. Danno, offrono, senza aspettarsi nulla in cambio: creature immobili, eppure in continuo movimento. Un po’ come chi lavora questa terra: Maria, moglie di Josko, e Mateja, che conservano la storia attraverso legni intrisi di essa. Chissà se la vite saprà mai quale felicità dona all’uomo, colei che con il suo frutto partecipa alla metamorfosi del tempo e della vita, lasciando il proprio destino nelle mani di colui che ritiene di essere sapiente. Gravner rifiuta la logica della monocoltura, creando un ambiente dinamico in cui la presenza di colture diverse riduce naturalmente l’incidenza di malattie. La filosofia di Josko trova la sua espressione più pura a Runk, vigneto dall’aspetto di un giardino inglese, ordinato a modo suo. Si vedono cipressi alti, atti a proteggere la vite e la fauna come frangivento, la natura accolta, mai allontanata. Gli stessi uccelli, che taluni vedono come nemici, qui trovano casa. Si lasciano conoscere e ci permettono di comprenderli, così da vivere in armonia. Il loro studio è parte integrante del lavoro della famiglia: nidi artificiali in cemento organico sono disposti nei vigneti; merli, picchi, passerotti trovano casa nel giardino dei Gravner. Nulla è un nemico, tutto può essere equilibrio: lezione imparata solo osservando la natura. Per esempio, gli uccelli, visti come nemici, non cercano zuccheri ma solo acqua, se gliela lasci, prenderanno solo qualche frutto, senza rovinare la produzione. Nel 2006, al fine di favorire ulteriormente la biodiversità, nascono a Runk i primi stagni nel vigneto, progettati con il professor Attilio Scienza, riempiti con acqua pescata direttamente dall’Isonzo, evitando l’introduzione di elementi estranei, perché non si aggiunge, si rimodella. Nasce un ecosistema che si popola da sé: due anatre, ranocchie, insetti, uccelli senza bisogno di forzare nulla. Gli animali arrivano da soli. Il tempo è una risorsa, non un ostacolo. Gravner lo rispetta ed in cambio la natura si mostra, come Biancaneve nella foresta che, con il suo pianto, attira gli amici del prato. Così Oslavia riemerge sotto la luce di Gravner. Le stesse colline ospitano boschi e vigneti in armonia, testimoni della caparbietà umana, guardano ed attendono che l’uomo comprenda. Si chiedono come sarà l’uomo che verrà: impositore o ascoltatore? Userà la violenza per innovare, o riuscirà a trovare la propria voce senza soffocare quella degli altri? La natura pazienta. Ti osserva mentre sbagli, mentre provi a forzarla, mentre ostenti il tuo sapere, e torna magnanima solo quando trovi il coraggio di lasciare andare l’idea di controllarla. Quando capisci che non tutto si può organizzare, non tutto si può prevedere. La terra non è un progetto, né una risorsa da sfruttare, è un’alleata che richiede il nostro rispetto. La vite ha bisogno di tempo, il vigneto ha bisogno di anni. Un vigneto vero non nasce per produrre in fretta: nasce per durare. Ma Josko lo sa: non è solo la natura che merita giustizia. I vigneti difatti rubano spazio anche a chi non beve vino. Gravner riconosce che bisogna ripagare anche chi non apprezza il nettare di Bacco. La terra non è esclusiva del vignaiolo. Va condivisa, anche con chi la vorrebbe diversa. E la produzione ha un senso solo se rispetta un principio più grande: l’equilibrio tra il dare e l’avere. Al centro vi è la natura come madre: a volte dura, a volte indulgente, ma mai cieca. Gravner non fa vino per il mercato, ma con il desiderio di assaporare l’eco dimenticato della Ribolla, che fa storia. Non lo fa per piacere. È alla costante ricerca del sapore della Ribolla, un gusto dimenticato, un’eco, un richiamo. Gravner cerca un sapore. La Ribolla non è un’uva facile. È tardiva, la pioggia la rovina, la muffa la trasforma, necessita di pazienza, attenzione e rinuncia. Ma per Josko non c’è alternativa: è lei l’unica. C’è qualcosa nella Ribolla che somiglia all’infanzia: fragile, ma profonda. Leggera, ma capace di restare. Ogni sorso è un ritorno: agli odori, ai silenzi, al tempo in cui il vino non era ancora vino, ma una promessa. La Ribolla, che per tanti anni è stata una varietà considerata minore, diventa simbolo della filosofia di Gravner: non un semplice vino, ma simbolo di un intero territorio, testimone di un approccio che sa guardare al futuro senza dimenticare il passato.

Gravner riscopre durante la sua ricerca il valore delle anfore vinificazione, che permette al vino di respirare, di evolversi in armonia con la terra che lo ha generato. Questo metodo consente di ottenere vini più autentici, più complessi, dove il suolo e il tempo raccontano una storia: lo stesso suolo che trasmette energia al vino tramite un velo sottile di argilla. Chi non ha mai cercato, almeno una volta, un sapore perduto? Un profumo, una voce, una sensazione che appartiene a un tempo in cui tutto sembrava vero. La Ribolla è questo: non solo un vitigno, ma una possibilità. Un viaggio interiore. Un modo per guardare il mondo con gli occhi di un bambino. La ricerca di Josko lo ha portato negli anni a dover affrontare diverse sfide, un genio è tale tanto quanto non è compreso pienamente, non possiamo certo pretendere di eccellensce diversamente. Josko, dal 1997, produce solo Igt, da quando la sua visione non è stata accettata dal Consorzio, che aveva declassato la Ribolla da Doc Collio a Igt, costringendo Josko a ristampare le etichette. Il declassamento arriva dopo un’annata particolarmente difficile per il Collio, quella del 1996, durante la quale una forte grandinata aveva distrutto l’80% dei vigneti, segnando l’anno della rinascita. Annata mai commercializzata, protagonista delle prime sperimentazioni quali le vinificazioni sulle bucce, ancora in legno, contenitore che però non soddisfaceva Josko, perché non gli permetteva di controllare pienamente le temperature. La svolta nel 1997, quando un amico che lavorava in Georgia riuscì a fargli avere una Kvevri, anfora georgiana di 230 litri. Josko se ne innamorò. Da lì la decisione di abbandonare l’acciaio freddo e utilizzare solo legno e anfore interrate. Josko ha scoperto l’utilizzo dell’anfora ripercorrendo l’itinerario della Naturalis Historia di Plinio il Vecchio, il quale nella sua opera scrive: “In amphoris optima servantur vina”, sottolineando come i vini migliori venivano conservati nelle anfore. Qui il vino non viene forzato, ma accompagnato. Fermentazioni lente, macerazioni lunghe, prima in anfora, poi in botte grande, ed infine in bottiglia, il vino prende il suo tempo. Come Plinio sottolineava scrivendo “Vinum aevo melius”, il vino migliora con il tempo. Josko mette Il tempo al centro di tutto, dando valore all’attesa. Il suo percorso di innovazione lo porta a prendere decisioni difficili: se vuoi far parte dell’eccellenza, non tutto si può salvare, non tutte le vigne, non tutte le piante, non tutte le uve. Il cambiamento ha un impatto sul mondo esterno, e non sempre è subito compreso. Nel 2000 arriva uno degli schiaffi più sonori per Gravner: il Gambero Rosso boccia la sua Ribolla 1997, definendola folle. Tale giudizio non viene vissuto come una sconfitta perché Josko è consapevole che la sua sfida più grande è con la natura, alla quale deve tutto. Una delle prove più impegnative è sicuramente l’annata 2017, una sopravvissuta, arrivata a 20 anni dall’inizio della nuova produzione di Gravner. Un caldo agosto e un settembre piovoso, sempre più comuni negli ultimi tempi, hanno reso la vendemmia massacrante, con ore di lavoro per raccogliere sufficiente frutto, solo per produrre 2904 magnum. Un’annata alla quale non era facile credere, ma che ha dimostrato di essere perfetta. Unica e utopica, esattamente come il genio di Josko Gravner. Dolce ma amara, si avvicina alla retta, si mostra timida, si ritira nella terra, Il dolore trapassa il bosco, accoglie il dolce, l’amaro si fonde, testimone di un sacrificio. Il sale riempie il calice, si scioglie e dona equilibrio al caramello e al soffio di caffè amaro. La natura, ancora una volta, decide di misurare la pazienza dell’uomo, che non può farne a meno, prigioniero del suo intelletto, di crearsi aspettative, di immaginare il sapore e la forma del frutto della terra da lui plasmato. Il vino, a dispetto di ogni qualsivoglia pensiero, dimostra di avere sufficiente grazia, forza e naturalezza, nonostante la sfiducia dell’uomo. Ogni annata ad Oslavia è singola, imperfetta e irripetibile. Qui, dove in certi anni, non riesci nemmeno a potare tutte le piante prima della vendemmia. L’acqua ristagna, il clima spinge al limite, è necessario decidere quale pianta sacrificare per salvare le altre, come ci spiega Mateja: “si lavora usando il criterio di una madre che sceglie di abbandonare un figlio per permettere agli altri di sopravvivere”. Perché se il panino è piccolo, nessuno si sazia se lo dividi in troppi pezzi. Le scelte difficili, non sempre subito accolte, trovano ragione nel tempo. La natura non cerca scorciatoie. Ti osserva, decide se fidarsi, misurando la grandezza dell’operato umano. Solo poi, quando il suo contributo risulterà reale, mette nella giusta prospettiva il vino, la terra e l’uomo. Per comprendere un gesto è necessario un tempo di attesa, sedimentare un pensiero, come il vino che è memoria. Quello che Gravner fa a Oslavia non è solo vino. È un’idea di mondo, dove l’uomo non è al centro, ma ai margini. Dove il controllo lascia spazio all’ascolto. Dove chi non beve ha diritto al paesaggio, alla biodiversità, alla vita. Il vino come mezzo per restituire senso a un territorio, per restare umani alla ricerca del futuro. Come il vino, Gravner vive, cambia, non si ferma. È in divenire. Non chiede di piacere, chiede solo di essere ascoltato, come un racconto, una poesia, come una ferita che porta con sé il suo dolore. La sua visione del vino va oltre il concetto di semplice produzione: è una riflessione profonda sul nostro rapporto con la natura, sull’importanza di rispettarla e di ascoltarla. La terra, secondo Gravner, è ciò che ci sopravvive, e solo attraverso il rispetto e la cura possiamo sperare di creare qualcosa di veramente duraturo. Ogni bottiglia di Gravner è una traccia di questa ricerca, un segno del suo impegno a preservare la memoria della terra e del vino.

Oggi, i vini di Gravner sono un simbolo di qualità, eccellenza, tradizione e cambiamento. Perché la vera innovazione, secondo Gravner, non è quella di seguire le mode, ma quella di tornare a ciò che è essenziale, a ciò che è autentico. E nel suo caso, questo significa lavorare con la terra, con la vite, con la natura, per creare vini che parlano di storia, di passione, di rispetto. Emblematico quindi l’interrogativo che suggerisce Mateja: “cosa dobbiamo fare per comprendere il nostro contributo? Scomparire per 500 anni”. Perché la grandezza si misura con il tempo, lo stesso che pretende il vino. Il senso profondo di tutto il nostro lavoro verrà compreso dai posteri, perché l’uomo presente non ha tempo a sufficienza per poter misurare il proprio contributo. E se il contributo di Gravner si misura nel calice di Ribolla, allora c’è speranza.

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